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Allarme terrorismo: il mondo ha paura



Aerei di linea trasformati in missili e passeggeri in proiettili umani. Com'è potuto accadere? Newton cerca di ricostruire gli eventi e di rispondere ai timori di tutti: cos'altro potrebbe succedere? E come proteggerci?
Tre bombe volanti ognuna della potenza di 1000 tonnellate di tritolo: questo il potenziale esplosivo dei tre aerei che hanno scatenato l'apocalisse negli Stati Uniti, colpendo le Twin Towers e il Pentagono. Ma il loro potenziale distruttivo è stato ancora peggiore, perché a differenza del tritolo, il carburante degli aerei, il cherosene, non brucia di colpo ma più lentamente, provocando quindi la fusione delle strutture di acciaio. È questo solo uno degli innumerevoli fattori calcolati dai terroristi per rendere ancora più devastante la loro azione. Che ora, con l'aiuto di esperti, abbiamo provato a ricostruire scientificamente per capire cosa è successo, quali altre minacce l'umanità può ancora temere e quali difese sarà possibile adottare. Demolizione violenta. Le Torri Gemelle sono crollate con una dinamica identica alle implosioni pilotate delle demolizioni civili. Al punto che è stata ipotizzata la presenza di bombe posizionate per abbattere i pilastri. Danilo Coppe, il maggior esperto italiano di demolizioni, però, non ha dubbi in proposito: "Le Twin Towers sono crollate in seguito all'azione combinata del violentissimo urto degli aerei e degli incendi che si sono sviluppati. Il fuoco è stato l'aggravante di una situazione statica già compromessa, poiché ha indebolito l'acciaio della struttura portante non compromessa dall'impatto. Non c'è stato bisogno di nessuna bomba". I due grattacieli, ideati e costruiti tra il 1962 e il 1973, erano in grado di resistere ai terremoti. Aaron Swirski, uno degli architetti responsabili del progetto, dice che era anche stato previsto l'impatto di un aereo. Ma gli aerei di trent'anni fa erano più piccoli e soprattutto avevano serbatoi meno capienti, quindi avrebbero scatenato incendi meno devastanti. Quando, dalla sua casa di Tel Aviv, in Israele, ha visto le immagini delle "sue" torri ferite, l'architetto ha capito che sarebbe successo l'inevitabile. L'entità del danno provocato dagli aerei e le fiamme che si propagavano anche verso i piani inferiori non lasciavano dubbi: gli edifici non avrebbero resistito. "Gli aerei", spiega Coppe, "hanno tranciato buona parte dei pilastri portanti. I pochi rimasti in piedi si sono di conseguenza fatti carico del peso di tutta la parte di edificio sovrastante, sopportando uno sforzo molto superiore a quello per cui erano stati progettati. L'incendio", continua l'esperto, "ha poi trasformato la zona colpita in un forno di dimensioni gigantesche. E quando i pilastri ancora integri hanno raggiunto la temperatura di circa 800 °C hanno ceduto, con una rincorsa tra la parte integra superiore dell'edificio, rispetto a quella inferiore, di almeno una dozzina di metri. Questa non ha retto l'urto ed è collassata a sua volta, innescando una reazione a catena". Parecchie ore dopo il crollo delle Twin Towers, sono caduti altri due edifici dello stesso complesso, senza che fossero stati direttamente colpiti dagli attentatori. "Questi due palazzi erano estremamente vicini ai grattacieli", dice Coppe, "è quindi probabile che le loro strutture si siano in parte surriscaldate e indebolite per il calore sprigionato dai roghi e principalmente siano state invase alla base dai detriti accumulatisi dal crollo delle torri, che hanno parzialmente spezzato le strutture portanti degli altri edifici". Palazzi a prova d'impatto. Ma è possibile progettare edifici che possano resistere a un attacco simile a quello subito dalle Torri Gemelle? "Ipoteticamente sì", risponde l'esperto, "basterebbe costruire palazzi con pilastri in cemento armato larghi un metro e mezzo, rinforzati da una fitta rete di tondini d'acciaio spessi quattro centimetri. In questo modo il cemento reggerebbe, anche se cotto da un incendio, e l'acciaio darebbe l'elasticità necessaria per resistere ai terremoti e agli impatti più violenti. Ma una torre alta più di 400 metri costruita con questa filosofia avrebbe una struttura portante che occupa quasi la metà della superficie edificata. Ogni cento metri quadrati di estensione trenta o quaranta sarebbero occupati dai pilastri e dai muri. Questo renderebbe antieconomica la costruzione dell'edificio, e sarebbe uno spreco di spazio". L'alternativa è rassegnarci a vedere le nostre città trasformate in un agglomerato di bunker, oppure sperare che il problema sia risolto alla base, con la fine del terrorismo. In cabina di pilotaggio. "Sembrava la schermata di un videogame. Solo che nei simulatori di volo a quel punto appare l'enorme scritta rossa "crash" e l'immagine successiva mostra l'aereo integro e pronto al decollo. Nella realtà le immagini successive sono state un'escalation di terrore assolutamente impensabile". Queste le prime emozioni e i pensieri di Simone Fanin, il pilota di linea ed ex controllore del traffico aereo che Newton ha intervistato per cercare di capire cosa può essere successo. Quanto sono sicuri gli aerei oggi? "Il livello di sicurezza dell'aereo in sé è altissimo. Ma gli aeroplani commerciali sono fatti per operare in tempo di pace, e l'aeronautica civile non è preparata per reagire a situazioni del genere. Perché sono eventi assolutamente inconcepibili in un mondo civile. I piloti e l'equipaggio non fanno nessun corso d'addestramento speciale, quelli che hanno un passato di pilota militare possono avere un tipo di preparazione del genere, quantomeno teorico. Ma le donne e coloro che hanno sempre e solo fatto i piloti civili non sono più preparati dei passeggeri a difendersi dalla violenza. E contemporaneamente hanno una grossa responsabilità: salvaguardare la sicurezza dei passeggeri. Per questo le procedure d'emergenza in caso di dirottamento prevedono un atteggiamento di "buon senso", consigliano cioè, di negoziare con i dirottatori assecondandone le richieste il più possibile". Cos'è accaduto, secondo lei, nel cockpit (la zona di pilotaggio)? "Di una cosa sono certo: nessun pilota, nemmeno sotto minaccia della peggiore tortura, avrebbe accettato di condurre il proprio aereo su simili obiettivi. Credo che i terroristi siano riusciti a sopraffare l'equipaggio, composto in maggioranza da donne, e poi abbiano preso possesso della cabina di pilotaggio. Probabilmente hanno usato armi non convenzionali, sfuggite al controllo dei metal detector. Sfruttando il loro addestramento e l'effetto sorpresa hanno ucciso i piloti e si sono impossessati dei comandi". Addestrati al simulatore. Si trattava dunque di persone perfettamente addestrate? "Certamente erano in grado di pilotare un aeroplano, e anche le indagini lo hanno confermato. Ma non è necessaria una grande abilità per farlo, basta seguire un corso a cui tutti possono partecipare, e che costa circa 50.000 dollari. Probabilmente i terroristi non sarebbero stati in grado di atterrare o decollare (le fasi più difficili di un volo), ma per mantenere l'aereo in quota in una certa rotta i corsi al simulatore sono sufficienti. Per capirci meglio: gli aeroplani hanno in memoria sul computer di bordo l'intera geografia "aeronautica" del pianeta (con l'indicazione, per esempio, di numerosissimi punti a terra, i radiofari, gli aeroporti e così via) che viene aggiornata mensilmente. Ora, sarebbe bastato che i dirottatori avessero impostato il FMS [Flight management system, vedi riquadro a sinistra] per dirigersi verso l'aeroporto La Guardia di New York per esempio, e l'aereo, qualunque fosse stata la sua destinazione, avrebbe modificato la propria direzione dirigendosi in volo strumentale verso la città. In prossimità delle torri i terroristi hanno disinserito il pilota automatico e proseguito in volo a vista, utilizzando le tecniche di base imparate ai corsi (quel giorno "casualmente", su New York c'era un cielo tersissimo e una visibilità eccezionale) e hanno avuto tutto il tempo di mirare ai bersagli e colpirli con incredibile precisione". I codici di emergenza. Si è parlato di codici di sicurezza. Il pilota avrebbe potuto comunicare a terra di essere in difficoltà prima che accadesse la tragedia? "Probabilmente da terra si sono accorti che qualcosa non andava, ma l'azione è stata così improvvisa che nessuno avrebbe avuto modo di intervenire. In ogni caso, la prima cosa che i dirottatori-kamikaze hanno fatto è stato scomparire dai radar, spegnendo il trasponder di bordo, l'apparecchio che invia continuamente il segnale in codice identificativo del velivolo". Un tempo il controllo del traffico aereo avveniva con il cosiddetto radar primario. In pratica, da un'antenna a terra partiva un segnale radar che veniva riflesso dall'aereo in volo e tornava a terra indicandone la posizione. Sui monitor dei controllori apparivano una serie di puntini in movimento che non davano, però, particolari indicazioni sul tipo d'aereo e sulla sua rotta. Oggi il sistema funziona in maniera inversa. "A ogni apparecchio viene assegnato un numero di codice che il pilota seleziona sul trasponder", spiega Simone Fanin. "Questo codice viene inviato a terra secondo una precisa cadenza e dà tutti i dati sull'aereo. Modificando il codice il comandante può comunicare determinate situazioni a bordo: le emergenze, l'avaria radio e persino il sequestro. Quando a terra ricevono un codice d'emergenza specifico vengono applicate le procedure relative; se invece il controllore perde il contatto radar con l'aereo, cioè il mezzo non compare più sui suoi monitor, i piani d'intervento attuabili sono tanti perché non è detto che il "silenzio" corrisponda a un evento drammatico. Possono infatti essere molte le situazioni "normali" per cui un aereo perde il contatto", continua Fanin."La più comune (benché rara) è un guasto negli impianti di trasmissione. Dopo aver cercato di contattare il velivolo senza successo si può ricorrere all'aeronautica militare. Questa, possedendo il radar primario per la difesa, può tracciare i movimenti dell'aereo "fantasma" e accertarsi che esso sia ancora in volo e non si stia comportando in maniera incontrollata. Può anche decidere di intervenire inviando, per esempio, un aereo militare in ricognizione". Se i passeggeri del Boeing 757 che si è schiantato vicino a Pittsburgh (Pennsylvania) fossero riusciti a sopraffare gli assalitori, sarebbero poi stati in grado di atterrare? "Probabilmente sì. Avevano sufficiente carburante per 4/5 ore e grazie ai sistemi di volo automatico è possibile, con l'aiuto degli esperti che sono a terra, guidare un qualsiasi passeggero a un atterraggio automatico senza conseguenze. Anche perché gli apparecchi moderni hanno dei sistemi di "autoprotezione" che impediscono l'esecuzione di manovre pericolose, come un'eccessiva inclinazione della virata che porta allo stallo e alla perdita di controllo dell'aereo". Quali sono le misure attuabili per aumentare la sicurezza? "Io personalmente punterei su maggiori controlli a terra, ad ampio raggio. Dagli scanner in grado di rilevare armi di materiale non ferroso, a nuovi sistemi antifalsificazione di documenti, a tutte le misure necessarie per il controllo passeggeri, bagagli e persino del personale di terra. Proteggere il cockpit con una paratia blindata sarà, probabilmente, una delle nuove misure di sicurezza, ma ci vorrà tempo per modificare gli aerei e danaro". Velivoli blindati? "L'altra idea, quella di un velivolo comandato da un computer senza la presenza fisica del pilota, credo che non darebbe assolutamente sicurezza ai passeggeri", sostiene Fanin. "Inoltre non dimentichiamo che anche i programmi più sicuri hanno un punto debole che permette di forzarli e modificarli. Non sarebbe difficile per le organizzazioni terroristiche che hanno orchestrato un attacco come questo, assoldare i migliori hacker in circolazione per commettere (da terra, senza rischi e protetti dall'anonimato elettronico), le peggiori atrocità. La "cellula" isolata, una sorta di nucleo protetto completamente separato e inaccessibile dal resto dell'aereo con ingresso e servizi separati, sembrerebbe l'ipotesi migliore. Ma a prescindere dai costi ha altri punti deboli. Innanzitutto impedirebbe al pilota l'accesso alla cabina passeggeri previsto da alcune procedure d'emergenza: per esempio, nel caso in cui si accende una luce di avaria al carrello d'atterraggio e si deve controllare fisicamente il suo corretto funzionamento. Inoltre, l'isolamento psicologico cui sarebbe sottoposto l'equipaggio, soprattutto nei voli a lungo raggio, sarebbe pesante da sopportare, oltre al fastidio fisico di dover restare ore in uno spazio angusto senza muoversi. E nell'ipotesi di un attentato (per esempio con cibo avvelenato) che mette fuori combattimento l'equipaggio, chi riuscirebbe ad arrivare ai comandi per tentare l'impossibile?" I rischi futuri. A questo punto è doveroso chiedersi quali potrebbero essere, in teoria, eventuali altri obiettivi o strategie terroristiche e di quale grado di sicurezza la comunità mondiale dispone per proteggersi. Tra gli obiettivi fisici, oltre agli edifici tradizionali, senza dubbio i più sensibili sono rappresentati dalle centrali nucleari [vedi box nella pagina a fianco] mentre sul fronte delle strategie una fonte di preoccupazione internazionale è quella delle armi chimiche e biologiche. Quest'ultima non è solo una minaccia teorica, perché, sia pure in piccola o in piccolissima scala, dal 1975 al 2000 si sono avuti nel mondo 342 casi di azioni terroristiche con l'impiego di agenti chimici o biologici (secondo il Monterey Institute for International Studies degli Stati Uniti). Complessivamente, queste azioni hanno causato 3744 feriti e 152 morti e la più importante è stata condotta nel 1995 dal terrorista giapponese capo della setta Aum Shinrikyo nella metropolitana di Tokyo (1038 feriti, 12 morti). Le armi chimiche si dividono in quattro categorie: gas vescicanti che attaccano la pelle (gas mostarda e lewisite), agenti che uccidono bloccando la circolazione dell'ossigeno nell'organismo (cianuro di idrogeno e cloruro di idrogeno); gas asfissianti (fosgene, cloro), gas nervini che distruggono il sistema nervoso uccidendo in pochi minuti (tabun, sarin, soman e VX). Secondo il rapporto dello Stimson Center, un'organizzazione non-profit americana che studia la diffusione delle armi chimico-batteriologiche, anche se teoricamente è proibito il commercio internazionale di queste sostanze, "non lo è nell'ambito di una nazione stessa, così un gruppo terrorista basato negli Stati Uniti può acquistare quantità modeste di una di queste sostanze o dei loro precursori (cioè elementi che servono a fabbricarle) da un'azienda americana senza destare sospetti". E come si vede nella tabella in questa pagina, i precursori delle armi chimiche sono impiegati in una enorme quantità di normali prodotti commerciali. Per le conoscenze necessarie a trasformarli in armi, una laurea in chimica organica è considerata sufficiente. Armi biologiche. Non tanto diversa è la situazione delle armi biologiche. Esistono in 59 Paesi del mondo 495 colture registrate, cioè notificate alle autorità sanitarie internazionali, di microrganismi letali come il Bacillus anthracis (un solo milionesimo di grammo è mortale), il Clostridium botulinum (di cui esistono 675 diversi ceppi con diverso grado di letalità), la Yersinia pestis, o responsabili di febbri emorragiche. In altri casi si tratta di agenti infettivi responsabili di diffuse epidemie negli animali (encefaliti equine, febbre Q, tularemia) e altamente letali per l'uomo. Le colture appartengono a laboratori di governi, università o industrie private. Secondo lo Stimson Center, "i ricercatori si procurano tranquillamente questi ceppi attraverso i tradizionali metodi di ordinazione, anche per posta, per cui non è difficile per un terrorista avere accesso a tali microrganismi, anche attraverso dipendenti infedeli o ex dipendenti. Gli sforzi per bloccare il commercio internazionale di queste sostanze", prosegue il rapporto, "si sono infatti rivolti negli ultimi anni soprattutto a evitare che interi Stati acquisiscano la capacità di sviluppare armi biologiche, ma non singole persone". Il problema è che solo in pochissimi casi esiste un vaccino immunizzante. In genere esistono antidoti, ma questi devono essere somministrati in brevissimo tempo dopo l'infezione, che spesso ha un decorso molto rapido [vedi box a pagina 22]. Diversamente dalle armi chimiche, però, quelle biologiche richiedono un elevato grado di conoscenze e attrezzature particolari, non tanto per coltivare in provetta i microrganismi (secondo un documento della Cia servono le attrezzature utilizzate, per esempio, nella produzione di yogurt, birra, antibiotici), ma per manipolarli successivamente, purificarli al massimo e trasformarli in armi vere e proprie. E ciò, secondo il rapporto dello Stimson Center, "ha bisogno di conoscenze e procedure così raffinate da essere fuori della portata del terrorismo tradizionale". Ma quello che ha provocato l'apocalisse negli Usa si può ancora definire terrorismo tradizionale? La paura nucleare. E mentre a New York proseguono le operazioni di recupero, il mondo continua a chiedersi cosa accadrà. Se da una parte c'è l'incognita che semplicemente respirando o aprendo un rubinetto di casa virus e agenti chimici immessi dai terroristi possano colpirci, dall'altra c'è quella legata al ricorso alle armi nucleari per combattere i terroristi (che gli Stati Uniti non hanno escluso). Queste sarebbero del tipo tattico, vale a dire non montate su missili intercontinentali strategici, ma di impiego "mirato" e di potenza contenuta (10-20 kiloton). Ciò non significa però che provocherebbero danni solo nel luogo in cui vengono fatte esplodere. "In generale", afferma Mauro Belli, direttore del Laboratorio di Fisica dell'Istituto superiore di Sanità, "il problema delle conseguenze sanitarie a grandi distanze dal teatro di un attacco nucleare, che nessuno di noi si augura, riguarda il fall-out generato dalla nube formatasi. Questa potrebbe portare radioattività nell'alta atmosfera con lunghi tempi di permanenza, capace quindi di ricadere anche a grande distanza dal punto dell'esplosione". Per fare un esempio: una bomba da 20 kiloton fatta esplodere in aria forma una nube radioattiva (la sommità del tristemente famoso fungo) che in dieci minuti raggiunge la quota di 10 chilometri. Da lì, il materiale radioattivo entra nelle correnti atmosferiche e si propaga anche su un'area molto vasta, come il caso di Chernobyl ci ha purtroppo insegnato. I rischi del fall-out. Ma questo "vento nucleare" potrebbe arrivare in Italia? "Anche l'entità del fall-out dipende da diversi fattori, in particolare se l'esplosione è sotterranea, in superficie o in quota", continua Belli. "Non sono in grado di ipotizzare il tipo e la potenza di una bomba lanciata sul territorio afghano e, quindi, quali potrebbero essere le conseguenze sull'Italia. Senza entrare nei dettagli sul tipo di radionuclidi prodotti, che dipendono dal genere di ordigno nucleare, si possono comunque fare delle ipotesi sulle conseguenze sanitarie nel nostro Paese. Se la potenza dell'ordigno fosse dell'ordine di poche decine di kiloton, e se anche la penetrazione nel terreno fosse limitata, la nube radioattiva portata nell'alta atmosfera sarebbe probabilmente inferiore, sempre in termini qualitativi, di quella causata dall'incidente di Chernobyl. Le conseguenze per l'Italia non dovrebbero verosimilmente essere paragonabili a quelle dell'esplosione della centrale nucleare ucraina, date inoltre alcune notevoli differenze tra le due situazioni. In particolare, la maggiore distanza dell'Italia dall'Afghanistan e l'effetto dei venti, che nel caso di Chernobyl furono particolarmente sfavorevoli per il nostro territorio". E in caso di emergenza? Il compito di vigilare sulla situazione italiana spetta all'Associazione nazionale protezione dell'ambiente (Anpa) che segnala le anomalie sia a un servizio di sorveglianza 24 ore su 24 sia a una struttura di esperti reperibili in un'ora. Anche i Vigili del fuoco hanno una loro rete di rilevazione, spiega Dario D'Ambrosio, comandante provinciale dei Vigili del fuoco di Milano e responsabile dell'emergenza radioattiva per la Lombardia. "Se per una qualsiasi ragione esistesse la possibilità di emissione di sostanze radioattive, siamo in grado di fare immediatamente una verifica a livello nazionale. In tempo reale controlliamo se c'è una ricaduta sull'ambiente, poi intervengono squadre di specialisti dette NPC (nucleare, petrolifero, chimico). Grazie ai nostri automezzi, laboratori mobili e attrezzature campali arriviamo nelle zone più abitate e, in soli 15 minuti, siamo in grado di misurare la concentrazione di sostanze radioattive e chimiche. Sono poi i prefetti e i sindaci che, in base ai dati forniti da noi, decidono quali provvedimenti prendere".
Flavia Caroppo, Patrizia Giongo, Massimo Murianni, Giovanni Siniscalchi

Newton 01 ottobre 2001



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