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Archeologia
Rivive la biblioteca più antica del mondo



L'unica biblioteca dell'antichità giunta fino a noi non solo ha rivisto la luce, ma è stata parzialmente decifrata. Sepolti sotto una coltre di lava dopo l' eruzione del Vesuvio del 79 d.C., i papiri apparivano come pezzi di legno carbonizzato. Con una pazienza certosina e le più avanzate tecnologie, esperti europei e americani sono riusciti a srotolarli e a leggerli.
Centinaia e centinaia di pezzi di legno carbonizzato. Ci si potrebbe chiedere: perché dare loro tanta importanza ? Perché dopo una attenta analisi, gli archeologi si sono resi conto di trovarsi di fronte a un patrimonio unico: la sola biblioteca dell' antichità pervenuta fino a noi. I "pezzi di carbone", infatti, sono in realtà preziosi papiri ritrovati nella Villa dei Pisoni di Ercolano e bruciati in seguito all'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Scavi con sorpresa: la scoperta non è recente. I papiri, infatti, vennero rinvenuti in casse e scaffali tra il 1752 e il 1754 in seguito agli scavi voluti da Carlo di Borbone. All'epoca dell'eruzione i rotoli furono investiti dal calore dei flussi piroclastici a una temperatura di 450 gradi circa e sono rimasti sepolti per secoli sotto una coltre di materiale lavico di 25 centimetri. "Per questo motivo", spiega Gianluca Del Mastro, ricercatore del Cispe (Centro Internazionale per lo studio dei papiri ercolanesi), "i circa 1800 manoscritti si presentano carbonizzati, piegati e schiacciati. Inoltre, la fragilità è accentuata dal naturale deterioramento a cui i papiri sono stati sottoposti dal Settecento a oggi". Ritrovarli è stato certo un gran colpo di fortuna, ma cosa contenevano quei manoscritti ? Per scoprirlo gli studiosi si sono trovati di fronte a un bel dilemma: escogitare un modo per srotolarli senza comprometterli. In tanti si sono prodigati cercando una soluzione e così metodi più o meno azzeccati si sono susseguiti, partendo dall' infelice tentativo del Principe di San Severo, che si servì del mercurio, fino all' indovinato metodo ideato dall'abate Antonio Piaggio nel 1753 e usato fino al 1906. La macchina dell'Abate: il primo metodo di svolgimento dei papiri ercolanesi che ebbe successo risale al 1753 e lo si deve all'abate Antonio Piaggio. Il religioso si era distinto per le sue spiccate doti per le arti meccaniche e grafiche e per le sue capacità nel settore del restauro. Il suo sistema era basato fondamentalmente sull'utilizzazione di una speciale colla a base di sostanze naturali sia per agevolare lo srotolamento dei papiri, sia per fissarne i frammenti su tele o su una speciale pellicola, ottenuta dalla vescica di maiale o di pecora. Inoltre, per tenere teso il rotolo di papiro aveva ideato anche una macchina di trazione, di cui un esemplare ottocentesco è esposto nell'Officina dei papiri ercolanesi. Il processo era molto lento, venivano svolti solo pochi millimetri al giorno. Per srotolare completamente il primo manoscritto ci vollero quattro anni. Prima di Piaggio si erano susseguiti altri tentativi con esiti per lo più disastrosi. Basti ricordare il Principe di San Severo che utilizzò il mercurio. O ancora Camillo Paderni, direttore nel Settecento del Museo Ercolanese di Portici, che tagliò con semplici coltelli i rotoli in due semicilindri e li svuotò nel centro, conservandone così solo la cosiddetta scorza esterna. Srotolare i papiri: l'impresa "impossibile" di riportare alla luce il contenuto dei papiri ha attirato negli ultimi anni ricercatori da tutt'Europa. È stata così messa a punto una tecnica di restauro e svolgimento dei papiri, detta "osloense" perché ideata da Knut Kleve e Brynjulf Fosse dell' Università di Oslo insieme a Gianluca Del Mastro del Cispe, Mario Capasso dell'Università di Lecce e alcuni tecnici della Biblioteca Nazionale di Napoli. Dopo le prime prove, eseguite nel 1983, l'équipe diretta da Kleve ha iniziato a lavorare alacremente. "Il nostro sistema", spiega Del Mastro, "consiste nell'applicazione su una parte del rotolo di una soluzione a base di gelatina e acido acetico in proporzioni variabili a seconda del grado di carbonizzazione del papiro. La prima serve a sostenere il fragile materiale, mentre l'acido acetico serve a staccare gli strati di papiro ancora attaccati l'uno all'altro. I frammenti così ottenuti vengono ricomposti come in un puzzle per cercare di leggere porzioni di testo più ampie possibili". La tecnica osloense è stata sospesa perché la parte restante di frammenti non ancora trattati si è mostrata refrattaria anche a questo sistema. "Attualmente", racconta ancora Del Mastro, "stiamo testando in America, su un piccolo frammento, un nuovo metodo a base di una sostanza gassosa, ancora top secret". Copie perfette: fino al 1916 i contenuti dei papiri già srotolati venivano riprodotti in disegni, che restituivano l'immagine di ciascuna colonna o di ogni frammento di simbolo, compresi gli spazi vuoti. "In genere", racconta Agnese Travaglione, responsabile dell'Officina dei papiri ercolanesi, "gli svolgitori dei manoscritti non conoscevano il greco, perciò il loro compito era proprio quello di eseguire una sorta di trascrizione "facsimilare" che rendesse l'immagine della pagina". Incisi su matrici di rame, i disegni vennero pubblicati in due raccolte. "Questi", spiega ancora Travaglione, "rivestono oggi una grande importanza per l' interpretazione dei testi, poiché riportano addirittura parti di testo andate perdute a causa dell' usura e del semplice deterioramento dovuto al passare del tempo". Dall'inizio dello scorso secolo, però, i disegni sono stati sostituiti con la fotografia. Affinando con gli anni questa tecnica, si è riusciti a riportare alla luce tracce di scrittura non visibili a occhio nudo, fino ad arrivare alla fotografia digitale, usata recentemente. Filtri per l'infrarosso: "la svolta deriva da una geniale idea di Marcello Gigante, insigne filologo e papirologo, fondatore del Cispe", spiega ancora Del Mastro. "Nel 1988, al congresso internazionale di Papirologia di Firenze, infatti, Gigante apprese dai colleghi americani della Brigham Young University (Byu) l' esistenza di una tecnica per rivelare, attraverso particolari fotografie digitali, anche i testi più degradati e ritenuti illeggibili. E intuì che il sistema poteva essere usato per i nostri papiri". è iniziata così una stretta collaborazione con i ricercatori americani. "Nei primi due anni di questa lunga avventura", prosegue Del Mastro, "è stata realizzata, a cura dell' Ispart (un centro per lo studio degli antichi testi religiosi che fa parte della Byu), la riproduzione di tutta la nostra collezione. Adesso siamo nella fase più delicata, quella cioè in cui leggiamo i risultati delle fotografie, un lavoro che durerà anni ma che già offre soddisfazioni". A eseguire questo tipo di riproduzione, chiamata Multi spectral imaging, sono stati Steven Booras insieme a Roger Macfarlane. La loro équipe è formata da 45 ricercatori tra americani ed europei. Le precarie condizioni dei papiri richiedevano la messa a punto di un sistema che superasse da una parte il fatto che la superficie da fotografare non fosse piana e dall' altra occorreva discernere tra il nero dell' inchiostro e le fibre scurite del papiro carbonizzato. "La tecnica multispettrale", spiega Macfarlane, direttore del progetto alla Byu, "è una forma di fotografia digitale molto sofisticata, sviluppata dalla Nasa per le esplorazioni interplanetarie. La macchina fotografica utilizza filtri capaci di leggere il cosiddetto spettro del non visibile, cioè l' infrarosso. Regolando l' apparecchio a seconda delle condizioni del frammento, riusciamo a leggere parti di papiro prima illeggibili. Le immagini migliori sono ottenute con filtri tra i 650 e i 1000 nanometri". Ma il lavoro degli esperti non finisce certo con la fotografia. Le riproduzioni, infatti, sono trasferite su Cd e vengono lette, ritoccate e spesso assemblate attraverso uno speciale software. "Grazie all' apporto delle immagini multispettrali, però", sottolinea Del Mastro, "non solo abbiamo migliorato il quoziente di leggibilità dei testi, ma abbiamo creato un archivio di immagini che salvaguarderà nel tempo una collezione di opere, prevalentemente filosofiche, unica e formidabile". Opere considerate perdute: rimane però ancora un dubbio da chiarire. Studiosi di tutto il mondo si sono dati tanta pena per srotolare e decifrare i papiri, ma cosa c'era scritto? Andiamo per ordine. La Villa dei Papiri apparteneva a Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Giulio Cesare e nemico di Cicerone. Si ritiene che la biblioteca sia opera di Filodemo di Gadara, un filosofo epicureo del I secolo a.C., il quale, portando con sé dalla Grecia un gruppo di manoscritti con i testi di Epicuro e dei suoi allievi, avrebbe fatto nascere nella villa uno dei centri di diffusione delle dottrine epicuree nella società romana. Il circolo era ben frequentato: lo stesso Virgilio vi capitò più volte e compare in uno dei papiri di Filodemo oggi tradotto. "Oltre a diversi scritti di Filodemo", dice Del Mastro, "sono stati trovati frammenti dell' opera di Epicuro Sulla Natura, versi del poeta latino Ennio e, con ogni probabilità il De rerum natura di Lucrezio. Sul punto gli esperti sono discordanti, perché alcuni pensano che si tratti proprio di Lucrezio e non di qualcuno che ha scritto per lui". Di lavoro ne è stato fatto tanto. E tanto ne deve essere ancora fatto per arrivare a capo di tutti i 1800 reperti. Ma una cosa è certa: emozioni e colpi di scena non mancheranno.
Menghini Manuela

Newton 01 maggio 2003



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